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SPIRITUALITA' E SALUTE: VALORI COSTITUZIONALI ED EVOLUZIONE NELLA PASTORALE DELLA SALUTE 

Save the date! 24 aprile 2024

A chi può interessare, segnaliamo questo convegno che si terrà presso l'Istituto dei Tumori di Milano il 24 aprile p.v..


SPIRITUALITA' E SALUTE

Valori Costituzionali ed evoluzione nella Pastorale della Salute 


Convegno Episcopale Lombarda

Sistema Socio Sanitario - Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori - Regione Lombardia

Milano, Mercoledì 24 aprile 2024

AULA MAGNA INT


Moderano

Francesco Ognibene - Avvenire 

Luigi Ripamonti - Corriere della Sera

Ore 9.30 - Saluti Istituzionali

Gustavo Calmozzi, Presidente Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori Milano

Guido Bertolaso, Assessore al Welfare Regione Lombardia

Attilio Fontana, Presidente Regione Lombardia 


Conferenza Episcopale Lombarda

Mons Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, Metropolita


Ore 10.00 - Che cosa dice la Costituzione

Renato Balduzzi, già Ministro della Salute, Professore ordinario di Diritto Costituzionale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Ore 10.20 - Quale presupposto filosofico

Massimo Reichlin, Preside Facoltà di Filosofia San Raffaele

Ore 10.40 - Il quadro dell'attuale economia sanitaria e sguardo al futuro

Antonello Zangrandi, Professore di Economia delle aziende pubbliche all'Università degli Studi di Parma


11.00 - Domande


11.20 - Prospettive future  

Mons Luca Bressan, Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l'Azione Sociale, diocesi di Milano

11.40 - Accompagnamento spirituale del malato, quale stile?

Sergio Manna, cappellano clinico e supervisor in Clinical Pastoral Education

12.00 - Lavorare in équipe

Maura Massimino, Direttore Struttura Complessa Pediatria INT

12.20 - Esperienze sul campo  

Laura Maria Zorzella, psicoterapeuta, responsabile del Centro pastorale della provincia lombardo-veneta dei Fatebenefratelli

12.40 - La realtà dell'Istituto Nazionale Tumori

Carlo Nicora, Direttore Generale Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori Milano

12.50 - Conclusioni

Mons. Maurizio Gervasoni, Vescovo di Vigevano, delegato CEL


Comitato Scientifico:

Tullio Proserpio, Giovanni Paganini, Paolo Fontana, Maurizio Lucini, Luciano Massari, Gian Paolo Sordi, Elisabetta Lamarque, Carlo Alfredo Clerici

Ingresso libero. Diretta web: https://rb.gy/frz4ry


LE CURE PALLIATIVE: 

SIGNIFICATO CULTURALE ED ETICO 

Pubblichiamo qui una copia dell'articolo di Carlo Casalone appena pubblicata su La Civiltà Cattolica.

Casalone Cure Palliative Civ Catt 23_09 21-35 compr.pdf

RIFLESSIONI DI LUCIANO MANICARDI 

COMUNITA' DI BOSE

Evangelizzare le parole sulla sofferenza è l'intento del testo scritto da Luciano Manicardi, L'umano soffrire. Evangelizzare le parole sulla sofferenza, Edizioni Qiqajon, Bose, 2006, che accosta l'esperienza dell'umano soffrire con l'esempio lasciatoci da Gesù nel prendersi cura dei malati e nel farsi carico della sofferenza per trasfigurarla. 

Sentitamente ringraziamo Luciano Manicardi per aver consentito la pubblicazione di alcuni capitoli del predetto libro, sul presente sito.

Offrire a Dio la sofferenza?

 

Un’espressione che ricorre frequentemente nei discorsi spirituali cristiani circa la sofferenza e la malattia è quello che chiede o invita a offrire a Dio la sofferenza[1]. Che cosa significa questa espressione? La risposta che viene da un malato grave è molto netta: “Non si offre qualcosa di cattivo”, ha detto un malato di cancro intervistato da André Sève, “Cristo non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma gli ha offerto ciò che egli diventava in quelle sofferenze: un essere che andava fino al fondo, fino all’estremo, fino al punto più profondo dell’amore, fino a quei vertici di amore che sono capaci di salvare”[2]. Questa affermazione sposta l’accento dalla sofferenza all’amore, e questo spostamento è equilibrato ed equilibrante dal punto di vista umano e teologico. Umano: è l’amore che può dare senso anche all’insensatezza della sofferenza. Teologico: la rivelazione cristiana afferma che è l’amore che salva, non la sofferenza. La sofferenza può, infatti, abbrutire, mentre l’amore può umanizzare anche chi vive gravi situazioni di dolore. Questo è verificabile anche nella vita e nella morte di Gesù. Non è la croce e non sono le sofferenze patite nella passione e sulla croce che hanno reso grande Gesù, ma è l’esatto contrario: è la vita di Gesù, l’intera vita di Gesù traversata dall’amore, spesa nell’amare, che ha dato senso anche a quell’abominio che era, che è e che sempre resterà la croce. Strumento di tortura e di pena di morte che uomini comminano ad altri uomini, la croce appare simbolo delle situazioni di sofferenza che disumanizzano, simbolo degli inferi dell’esistenza. Non la croce, ma colui che vi è appeso è veramente importante e decisivo: quella morte diviene eloquente alla luce della vita precedente che la illumina con la luce dell’amore e della dedizione incondizionata agli altri. Il Cristo Signore, colui che “ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7,37), che “è passato facendo il bene, guarendo e liberando” (cf. At 10,38), colui che è il “maestro buono” (Mc 10,17), che ha amato i suoi fino all’estremo, fino al punto di non ritorno (Gv 13,1), dà senso alla croce, ovvero anche alle sofferenze fisiche, psichiche, morali, che si sintetizzano nella realtà della croce. Cristo non ha offerto le sue sofferenze, ma ha offerto se stesso, ha fatto della sua vita un’offerta a Dio trovando la propria gioia nell’amare gli altri e questo l’ha fatto sempre, non solo sulla croce: la croce è il culmine di una vita spesa per gli altri, nell’amore e nella dedizione. Il rischio insito nell’atteggiamento ispirato alla disposizione di offrire a Dio la sofferenza è quello del dolorismo, del pensare che la sofferenza in quanto tale abbia un valore salvifico e sia gradita Dio, e, connesso a questo c’è il rischio dell’immagine di un Dio perverso, sadico, che si compiace della sofferenza che l’uomo patisce fino ad accettarla come offerta gradita. In sostanza il problema è questo: come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta l’umanità del suo figlio, l’uomo? Come può il Dio Padre di Gesù Cristo gradire come offerta ciò che è male per la sua creatura?

Un passaggio del teologo Xavier Thévenot mi pare impostare correttamente la questione: “La consegna spirituale ‘offri le tue sofferenze’ deve conoscere un processo di chiarificazione. La potenza di questa formula è notevole in quanto decentra da sé la persona sofferente e le fa cogliere in un istante che ciò che ha gusto di morte può diventare il luogo di uno scambio con Colui che lei ama. Ma allo stesso tempo, essa rischia di far dimenticare che la gioia di Dio non potrebbe mai consistere nel ricevere ciò che è cattivo, ma nell’accogliere come un dono ciò che costruisce l’uomo sotto l’effetto del suo amore divino riconosciuto. Il ‘piacere’ di Dio è di vedere che la sua Presenza misteriosa manifestata nel suo Figlio e attraverso l’azione del suo Spirito è capace di permettere a quella persona schiacciata dal dolore, di lottare contro le forze di disunione che la sofferenza sviluppa e di ritrovare poco a poco il gusto della vita. Se colui che soffre ha qualcosa da offrire nella sua prova, non sono le sue miserie, le sue malattie, le sue sofferenze - tutte cose che dispiacciono a Dio, come mostra l’atteggiamento di Gesù nel vangelo -, bensì è questo lavoro discreto di Dio in lui. È questa scoperta stupefacente e talvolta anche meravigliata che, se ci si rimette nelle mani di Dio, la vita può ancora sgorgare anche quando il male sembra sommergere tutto”[3].

Di fronte alla sofferenza il problema non è anzitutto quello di “offrirla”, quasi santificandola immediatamente: e se dietro a questo atteggiamento vi fosse la rimozione della fatica che essa chiede, ovvero, quella di assumerla, di darle un senso, di integrarla nella propria vita, accettando che essa susciti in noi reazioni di rivolta e ribellione? Probabilmente, l’espressione “offrire a Dio le sofferenze” esprime in modo maldestro e troppo abbreviato qualcosa di più complesso e vero: fare, anche della malattia e della sofferenza, un cammino in cui si conosce qualcosa della vicinanza e della consolazione di Dio; continuare, pur con tutte le difficoltà e le intermittenze dovute alla gravità della sofferenza, a nutrire fede, speranza e carità anche nella prova.  Ma in verità, noi non offriamo a Dio le nostre sofferenze, bensì ciò che ne abbiamo fatto: al cuore di  ciò che quella espressione significa in profondo, non vi sono le sofferenze, ma il lavoro interiore e di fede che abbiamo compiuto e che abbiamo lasciato compiere a Dio in noi.

Qui, noi raggiungiamo anche il senso propriamente cristiano dell’offerta. Un senso che ci è svelato dall’eucaristia. L’eucaristia è forse un’offerta che l’uomo fa a Dio? Ha scritto Joseph Ratzinger: “Nell’eucaristia non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Dio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già per principio suo! –, bensì facendoci regalare qualcosa di suo, e riconoscendolo così come unico Signore. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano”[4]. È Dio che donandoci il suo Figlio unigenito ha offerto a noi la via che ci insegna a vivere e anche ad assumere le contraddizioni della vita cercando di amare sempre e di fare di ogni situazione un’occasione per amare. Gesù al Getsemani non ha offerto la sua sofferenza al Signore, ma ha pregato per essere liberato dalla sofferenza e dalla morte ignominiosa, quindi ha rimesso tutto al Padre nell’atteggiamento di dono di sé, di vita spesa per gli altri e per Dio che ha contraddistinto tutta la sua esistenza. Atteggiamento di offerta, questo, che arriva a comprendere ed abbracciare anche il momento della sofferenza e della morte. Tutto può essere vissuto evangelicamente, anche la sofferenza: forse è questo che tenta di esprimere l’espressione “offrire a Dio la sofferenza”. Più che offrire a Dio la sofferenza, si tratta di rielaborare dall’interno, nella fede, con l’amore,  la sofferenza stessa, nella convinzione che il senso della vita sta nell’amore con cui Dio ci ha amati in Cristo e nell’amore che noi sappiamo vivere e trasmettere. Il filosofo Gabriel Marcel ha scritto: “Io sono incline ad affermare che la sofferenza è un male, ma che l’anima umana, in certe condizioni, può liberamente, cioè con un atto libero, trasformare questo male non tanto in un bene, quanto piuttosto in un principio suscettibile di irradiare amore, speranza e carità. Questo implica che l’anima che si trova nel dolore si apra maggiormente agli altri invece di rinchiudersi su se stessa o sulla sua ferita”[5]. Per fare questo lavoro occorre però una base salda che l’uomo non può darsi da se stesso: il cristiano riconosce questa base nell’esperienza di amore di Cristo per lui, un amore più forte della sofferenza e della morte.

La realtà umana e spirituale evocata dall’inadeguata espressione “offrire a Dio la sofferenza”, implica l’esperienza di fede di un amore preveniente e di un essere amati anche nella propria malattia e situazione infelice. Insomma, è la passione dell’amore che dà senso alla passione del soffrire. Amare implica sempre una sofferenza. A volte avviene che persone molto malate o gravemente sofferenti sappiano irradiare una luminosità, una gioia di vivere e una capacità di amore che il semplice contatto con loro, il restare accanto a loro anche per poco tempo si rivela essere un’esperienza spirituale e umana di profondo arricchimento: quelle persone hanno saputo innestare la sofferenza nell’amore e far prevalere la passione d’amore sulla passione del soffrire. E ci trasmettono l’insegnamento grande: l’amore dà senso, e la vita, in tutti i suoi aspetti, ha senso quando diviene un capolavoro di donazione e di amore. Perché allora è una vita beata. E la beatitudine può essere sperimentata, sulle tracce di Cristo, anche nella sofferenza, nelle persecuzioni, nelle afflizioni. Quando si entra nella comprensione della liberante parola: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35), allora il senso della vita tutta, ogni suo momento, è trovato nella capacità di farne un’offerta, un dono. Di fare di sé un’offerta. Fino a trasfigurare ciò che bene non è, come la sofferenza e la malattia.


(L. Manicardi, L’umano soffrire. Evangelizzare le parole sulla sofferenza, Qiqajon, Bose 2006, pp. 175-180)



[1] Ch. Delhez, «Peut-on offrir ses souffrances à Dieu?», in Vie consacrée 3 (2002), pp. 148-160.

[2] La Croix, 20 aprile 1988.

[3] X. Thévenot, Souffrance, bonheur, ethique. Conférences spirituelles, Salvator, Mulhouse 19902, p. 27.

[4] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, pp. 229-230.

[5] G. Marcel, La dignité humaine et ses assises existentielles, Aubier, Paris 1964, pp. 142-143.


La volontà di Dio

 

È sempre molto difficile osare una parola sulla sofferenza, sulla malattia, sulla morte. È difficile avere una parola all’altezza di eventi così gravi come la sofferenza e, soprattutto, la morte. È difficile pronunciare una parola umana, ma anche una parola teologicamente adeguata. Impreparazione e improvvisazione possono portare il visitatore o l’accompagnatore di un malato a pronunciare parole non solo insensate teologicamente e non fondate biblicamente, ma anche offensive o imbarazzanti per la sensibilità del malato. Dire al malato il “privilegio” della sua sofferenza perché questa è segno della predilezione divina, oppure perché questa avvicina maggiormente e unisce misticamente a Cristo crocifisso,  o dare l’impressione che la sofferenza in quanto tale sia un valore salvifico in sé, tutto questo significa sostituirsi con violenza al malato nel lavoro di interpretazione dell’evento della sua malattia e veicola l’immagine di un Dio perverso, che certamente non è il Dio narrato da Gesù Cristo nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi atti, e infine nella sua morte.

Occorrerebbe poi prestare molta attenzione al ricorso alla categoria della “volontà di Dio”. Troppo facilmente e velocemente si attribuisce alla volontà di Dio un male, una malattia, una sofferenza, una morte invitando così a un atteggiamento di rassegnazione fatalistica. E così si confonde il Dio cristiano con il fato pagano. “Bisogna accettare la volontà di Dio”: questa frase detta al capezzale di un malato, che cosa rivela? L’imbarazzo di chi non sa che cosa dire e pur tuttavia si sente in dovere di dire qualcosa, quasi temendo che il silenzio possa essere una sua personale sconfitta? Spesso il silenzio partecipe è denso di forza comunicativa molto più di qualsiasi parola! Oppure rivela una necessità (“Bisogna”) a cui nessuno può sottrarsi e così chiude un discorso troppo rischioso se intrapreso e approfondito? Ma il linguaggio del “si deve”, “bisogna”, “occorre”, “è necessario”, elimina l’unica cosa veramente essenziale: la libertà dell’uomo chiamato a scegliere e a situarsi responsabilmente davanti a Dio nelle diverse contingenze e, in particolare, in emergenze così ardue come una malattia. E poi, soprattutto, il riferimento alla “volontà di Dio” che può solo essere accettata, sembra indicare qualcosa di già fissato, di prestabilito, che cade dall’alto, e che non lascia alcuno spazio alla risposta umana, al suo necessario e faticoso articolarsi soprattutto di fronte a eventi dolorosi e tragici come malattie e sofferenze.

Va qui denunciata una concezione purtroppo diffusa della “volontà di Dio” che non risponde in nulla alla rivelazione evangelica. Concezione visibile anche in rapporto al discorso della vocazione che ogni credente è chiamato a cercare e discernere. La vocazione non è un già-dato, prestabilito dagli imperscrutabili disegni celesti e che il credente deve “trovare”, “scoprire”, quasi come per magia o per fortuna, in una logica da “gratta e vinci”. La vocazione, in verità, avviene nell’incontro fra le esigenze evangeliche e la precisa creaturalità della persona. Così, anche di fronte ad una malattia da assumere, il “fare la volontà di Dio” avviene all’interno di un plesso di elementi quali la condizione psicofisica del malato, la sua fede, l’ambiente che gli sta accanto e il tipo di accompagnamento e di assistenza di cui gode … In ogni caso, non risponde certo né alla lettera né allo spirito del vangelo l’affermare che Dio vuole la sofferenza dell’uomo. Dio vuole la libertà dell’uomo e la sua umanizzazione; Dio vuole la felicità dell’uomo, una felicità trovata nell’amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicità che sa assumere anche le sofferenze e le tribolazioni. Una distorsione del messaggio evangelico diffonde l’idea che la volontà di Dio consista unicamente nella “croce”, nel “rinnegamento di sé”, nell’“umiliarsi”, dimenticando che non queste dimensioni di per sé sono ciò che immette nella comunione con Dio, ma solo l’amore, la libertà con cui una persona sceglie di amare e donare la vita accettando anche le sofferenze (e dunque le umiliazioni, i rinnegamenti di sé, la croce) che questo comporta. Non la sofferenza, ma l’amore salva! Non la croce di per sé, che è strumento di morte, salva, ma la vita di Colui che vi è steso sopra, la quale dà anche senso alla croce.

Se ci volgiamo al Nuovo Testamento noi vediamo che ciò che Dio vuole è “la salvezza di tutti gli uomini” (1Tm 2,4), è che “chiunque crede nel Figlio abbia la vita eterna” (Gv 6,40), è che “nessuno di questi piccoli si perda” (Mt 18,14). La volontà di Dio è espressa nella vita di Gesù Cristo, l’uomo secondo il cuore di Dio, che cioè adempie l’intenzione di Dio. Così la volontà di Dio non schiaccia, ma eleva l’uomo, non lo paralizza, ma lo dinamizza, non lo disimpegna, ma lo responsabilizza, non lo rende supino, ma suscita la sua libertà, non deprime la sua umanità, ma la esalta. Il Dio rivelato da Gesù Cristo non vuole sacrifici cruenti, ma il libero dono di sé per amore. Così il Cristo, entrando nel mondo, può dire: “Non hai voluto né sacrifici né offerta … allora ho detto: Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà” (cf. Eb 10,5-7). La volontà, cioè l’intenzione profonda che guida Dio nel suo rapporto con gli uomini, è la salvezza, l’amore, la preoccupazione amorosa. Certo, questo incontrare l’uomo là dove l’uomo è, dunque anche negli inferi dell’esistenza, nel male, nella sofferenza, nella morte, porta Dio stesso, nel suo Figlio, ad abitare queste realtà che ora possono essere vissute dal credente con una speranza nuova. Dio non è un dio sadico che vuole la sofferenza né del suo Figlio Gesù Cristo, né dei suoi figli, gli uomini. Anzi, vuole mostrare che la sofferenza e la morte non hanno l’ultima parola sull’uomo, ma possono essere risignificate in Cristo, vivificate dall’amore. Il Cristo che al Getsemani prega: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36; cf. Lc 22,42: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia, non la mia ma la tua volontà sia fatta”), non indica certo che il Padre voglia la morte cruenta del Figlio, ma che il Figlio, nell’amore per il Padre e nella dedizione alla sua missione, si dispone a viverne anche un esito non voluto e non desiderato facendo la volontà di Dio, cioè amando e donando fino alla fine. La croce è innalzata dagli uomini, è segno del peccato e della violenza umana, dell’inimicizia di cui gli uomini si fanno portatori contro Dio, è un evento non-divino, e tuttavia Gesù arriva a viverla nella libertà e nell’amore. Ha scritto il teologo Dietrich Bonhoeffer: “Certamente non tutto quello che accade è semplicemente ‘volontà di Dio’. Ma alla fine comunque nulla accade ‘senza che Dio lo voglia’ (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio”[1]. È stato così per Gesù di fronte alla croce, è così per il cristiano di fronte alle situazioni di malattia, sofferenza e morte che incontra nella sua esistenza. Il cristiano ogni giorno prega le parole del “Padre nostro” che dicono: “Sia fatta la tua volontà”, preghiera che equivale alla domanda dello Spirito santo. Infatti, lo Spirito santo, che è l’intenzione profonda che muove Dio nel suo agire per gli uomini e per il mondo intero, attua e interiorizza negli uomini “la volontà del Padre rinnovandoli dalla vetustà alla novità di Cristo”[2]. La volontà di Dio, infatti, si è pienamente manifestata nella vita di Gesù Cristo, nella sua umanità, nella sua persona. E lo Spirito santo è l’energia divina che ci rende simili al Cristo.

È utile riflettere su queste considerazioni che Dietrich Bonhoeffer rivolse nel 1941, in una lettera circolare, ai suoi ex studenti del seminario di Finkenwalde, ormai dispersi, in occasione della morte di alcuni loro compagni arruolati nell’esercito tedesco: “Di fronte alla morte, non possiamo dire fatalisticamente: ‘È volontà di Dio’. Dobbiamo aggiungere subito il contrario: ‘Non è volontà di Dio’. La morte dimostra che il mondo non è quel che dovrebbe essere, ma che ha bisogno di redenzione. Solo Cristo vince la morte. Nella sua morte, le due espressioni: ‘È volontà di Dio’ e ‘Non è volontà di Dio’ raggiungono il massimo del paradosso e dell’equilibrio. Dio accetta di lasciarsi coinvolgere in qualcosa che non è la sua volontà e da quel momento in poi la morte deve servire Dio nonostante tutto … Solo nella croce e nella resurrezione di Gesù Cristo la morte è stata ridotta sotto il potere di Dio e costretta a servire il piano di Dio. Non una resa fatalistica, ma una fede viva in Gesù Cristo, che è morto ed ancora è risorto per noi, può veramente sbarazzarci della morte”[3].


(L. Manicardi, L’umano soffrire. Evangelizzare le parole sulla sofferenza, Qiqajon, Bose 2006, pp. 181-186)



[1] D. Bomnhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 236.

[2] Ireneo di Lione, Contro le eresie III,17,1.

[3] Citato in R. S. Anderson, La fede, la morte e il morire, Claudiana, Torino 1993, p. 129.


“Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne” (Col 1,24)

 

         È difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito dell’evangelo, della vita e della predicazione di Gesù, e che non sono nemmeno conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza. E che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermazioni, che poi ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una “spiritualità”, erano tratte o fatte derivare da testi biblici. Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse ad essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l’autorità della parola di Dio contenuta nella Scrittura dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare. E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che echeggiano testi biblici divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, ed acquisiscono così, a basso prezzo, quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà. Sappiamo, per esempio, che il paradosso espresso da Paolo in 2Cor 12,10 con le parole: “Quando sono debole (o “malato”), allora sono forte”, estrapolato dal contesto in cui esso manifesta la maniera con cui Paolo integra nella propria fede pasquale e nella propria personale sequela del Crocifisso la sua preghiera insistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa “spina nella carne” che lo affligge, ha potuto essere utilizzato per fondare affermazioni non equilibrate sulla malattia e sulla sofferenza. Questo testo tardomedievale ne è una buona espressione: “Se l’uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l’infermità del corpo è la salute dell’anima … Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l’orgoglio svuotato, l’invidia allontanata, la lussuria bandita … Facendo odiare il mondo essa dispone all’amore di Dio”[1].

Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee.

È il caso di Col 1,24, normalmente tradotto: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa”. Questa traduzione sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo. In realtà se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l’ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: “Io trovo la mia gioia nelle (mie) sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa”. Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è ad essa che manca qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti, ma è alla partecipazione dell’Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è “nella mia carne”, cioè alla “mia povera persona umana”, come traduce Rinaldo Fabris[2], che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo. “Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama ‘tribolazioni di Cristo nella mia carne’, e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l’annuncio del Vangelo e a causa sua e per la Chiesa”[3]. Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080 – 1149/1150), commentando la lettera ai Colossesi, si chiede “dove” manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde: “Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, anzi, in essa tutte le sofferenze trovano la loro pienezza. Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa”[4]. La tradizione cristiana fin dall’antichità ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e ad esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d’Aquino, nel suo commento alla lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell’Apostolo: “Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (passio) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (passiones) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: ‘Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo’ (1Gv 2,2)”[5]. Del resto, proprio la lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell’agire di Cristo in ordine alla redenzione sicché nulla può essere aggiunto: “Piacque a Dio di fare abitare in lui (il Figlio) tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo” (Col 1,19-20).

Insomma: “Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché l’Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la Chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta e la lettera non cessa di dire il contrario”[6].

         Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l’espressione tradotta dalla Bibbia CEI con “patimenti di Cristo”, andrebbe più correttamente resa con “tribolazioni di Cristo”. Il termine greco thlípsis non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell’Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni, ecc. La passione e morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come “sangue”, “morte”, “croce”, “morte in croce”, mai tribolazione. Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall’evento pasquale di Cristo e segnano in particolare l’attività apostolica ed evangelizzatrice che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito. Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende diákonos, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l’annuncio e la predicazione della parola di Dio (Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (pathémata: “Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi”) e incontra tribolazioni (thlípseis: “completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne”) che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l’edificazione della chiesa. E in quel vivere le sofferenze in Cristo e per i cristiani delle sue comunità, egli trova anche la sua paradossale gioia nelle tribolazioni. Capiamo allora che l’espressione “tribolazioni di Cristo” designa le tribolazioni che l’Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio “che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell’Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia - disegno che ha per destinatarie tutte le genti -, ha nel Cristo morto e risorto il protagonista centrale. “Ciò che manca”, dunque, “alle tribolazioni di Cristo”, ha a che fare con l’attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del vangelo e della chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio. “Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della Chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza ad ogni carne e fino ai confini del mondo”[7].

In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all’interno di corrette coordinate di teologia biblica.


(L. Manicardi, L’umano soffrire. Evangelizzare le parole sulla sofferenza, Qiqajon, Bose 2006, pp. 168-174)



[1] Citato da I. Noye, «Maladie», in Dictionnaire de Spiritualité X, Beauchesne, Paris 1977, col. 143.

[2] Le lettere di Paolo, traduzione e commento di Rinaldo Fabris, vol. 3, Borla, Roma 1980, p. 93.

[3] Saint Paul, Épitre aux Colossiens, Introduction, traduction et commentaire de Jean-Noël Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 135.

[4] In Epistolam ad Colossenses PL 181,1325.

[5] S. Thomae Aquinatis, Super Epistolam ad Colossenses Lectura, in Idem, Super Epistolas S. Pauli Lectura, II, cura P. Raphaelis Cai O.P., Marietti, Taurini-Romae 1953, p. 137

[6] Saint Paul, Épitre aux Colossiens, Introduction, traduction et commentaire de Jean-Noël Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 135.

[7] P. Jovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della θλîψις nelle Lettere di S. Paolo, EDI OFTES, Palermo 1985, p. 154.


PUBBLICATO IL VOLUME 

"LA SPIRITUALITA' NELLA CURA"

Scritto da Carlo Alfredo Clerici e Tullio Proserpio.

Edizioni San Paolo, Milano 2022.

Per maggiori informazioni si veda la pagina dedicata in questo sito:

AGGIORNAMENTI SULLE CURE PALLIATIVE

costituita l’associazione 

“Gruppo di studio sulla spiritualità nella cura”

Milano, 9 giugno 2021

Il sito www.curaspirituale.it è nato agli inizi della pandemia. Il 9 giugno 2021 si è finalmente costituita l’associazione “Gruppo di studio sulla spiritualità nella cura”. Presto sarà pubblicato lo statuto e le istruzioni per l'adesione.

Come associarsi 

ATTIVITA' E OBIETTIVI DEL Gruppo di Studio sulla spiritualità nella cura

Il Gruppo di Studio riunisce studiosi di varie discipline e clinici interessati allo studio del ruolo della spiritualità nella cura dei pazienti e nell'organizzazione sanitaria. Il gruppo ha la finalità di promuovere la conoscenza, la cultura e la ricerca su questo tema secondo i parametri metodologici oggi accreditati in ambito scientifico. 

Prospettive moderne riconoscono un ruolo centrale alla soggettività dei pazienti all’interno del processo di cura. Tra gli aspetti individuali più rilevanti vi è il significato personale attribuito alla malattia che costituisce un elemento fondamentale per affrontarla e adattandosi ai sintomi e alle esigenze imposte dalla cura. Mentre le spiegazioni biologiche offrono, la base razionale per comprendere la dinamica fisiopatologica delle malattie, esiste però un livello psicologico e spirituale non meno importante per l'elaborazione individuale degli eventi della vita.

Nel corso degli ultimi anni si è sviluppata una rinnovata considerazione scientifica verso il ruolo della spiritualità nell’ambito delle cure mediche. Varie ricerche mostrano come religione e spiritualità siano tra le risorse più importanti riferite dalle persone che affrontano malattie gravi (Yates 2005; Tepper 2001, Tarakeshwar 2006). 

Dal punto di vista organizzativo l’assistenza spirituale è gradualmente sempre più integrata come risorsa di supporto in ambiti quali le cure oncologiche (Levy 2009, Li 2016, Salsman 2015) e le cure palliative (Balboni 2017, Steinhauser 2017). Varie organizzazioni sanitarie, come la Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (Clark 2003), hanno evidenziato la necessità di considerare gli aspetti spirituali all’interno delle cure mediche ospedaliere. Si è sviluppato un filone di ricerca su questo ambito che mostra come l'assistenza spirituale sia associata a una migliore qualità generale della vita, al benessere psicosociale e al benessere spirituale (Balboni 2009; Kruizinga 2016). Esiste inoltre un insieme di ricerche che offrono crescenti evidenze rispetto al valore protettivo della spiritualità rispetto alle problematiche di salute mentale (Koenig 2009; Bonelli 2013). 

Numerose persone affrontano, durante una malattia organica grave, una crisi di natura spirituale (Thune ́-Boyle 2011, Fitchett 2004) che può portare ad effetti pratici come ad esempio ridotti esiti degli interventi riabilitativi (Fitchett 1999), una qualità di vita più scarsa e persino un aumento della mortalità (Pargament 2004, Pargament 2001). 

La letteratura internazionale mostra come gli aspetti spirituali dei pazienti siano generalmente sottovalutati nella pratica clinica (Best 2015; Williams 1999, Delgado-Guay 2013; Balboni 2007) con il rilievo che un’ampia percentuale di pazienti desidererebbe esporre le proprie preoccupazioni religiose / spirituali con i curanti ma solo raramente trovi la possibilità di farlo (Williams 2011). 

Il concetto di spiritualità è variegato e ciò lo rende difficile tradurre in un costrutto operativo e applicabile nella ricerca (McSherry 2002, Aten 2009). Questa difficoltà contribuisce a non facilitare la comprensione di cosa sia la cura degli aspetti spirituali da parte dei professionisti che lavorano in un ospedale (Daaleman 2008; Rushton 2014). 

Spiritualità e religione un tempo erano prospettive coincidenti tanto cercare di distinguerle sembrava inutile prima ancora che impossibile. Oggi la situazione è cambiata. La religione è oggi definibile come “un sistema organizzato di credenze, pratiche, rituali e simboli strutturato per facilitare la vicinanza al sacro o trascendente (Dio, potere superiore o verità / realtà ultima) e favorire la comprensione della propria relazione e responsabilità verso gli altri che vivono insieme in una comunità” (Koenig 2001). 

La spiritualità è invece definibile come una parte complessa e multidimensionale dell'esperienza umana. Ha aspetti cognitivi, esperienziali e comportamentali. Gli aspetti cognitivi o filosofici includono la ricerca di significato, scopo e verità nella vita e le credenze e i valori in base ai quali un individuo vive (Puchalski 1998).

Attualmente il numero di persone senza affiliazione religiosa è in aumento. Nel 2017, oltre un quarto degli adulti statunitensi (27%) si definiva "spirituale" ma non "religioso", rispetto al 19% nel 2012 (Lipka 2017). Secondo alcune stime in Italia si definisce cattolico il 71% della popolazione di cui il 25,4% non praticante (Eurispes 2016), con un incremento degli appartenenti ad altre religioni e di persone che si definiscono spirituali ma non religiose. Se tutte le religioni sono espressioni di spiritualità, non tutte le espressioni di spiritualità possono essere legate a credenze religiose.

Il tema della spiritualità e della fede religiosa possono essere di interesse medico in quanto influenzano i comportamenti, la comunicazione con i curanti e le scelte di salute come ad esempio il consumo di alcol, le scelte dietetiche, l'atteggiamento verso la donazione e il trapianto di organi, nozioni di colpa con influenza sulle cure (Ellison 1998; Seybold Hill 2001; Powell 2003; Davis 2006).

I benefici dell'attenzione in ambito clinico ai bisogni spirituali sono stati indagati dalla letteratura scientifica che mostra come i pazienti che abbiano discusso delle preoccupazioni spirituali o religiose con un membro del team sanitario o un cappellano ospedaliero, abbiano maggiori probabilità di valutare più positivamente l'assistenza ricevuta con ricadute positive sulla reputazione dell'ospedale (Marin 2015); per contro i pazienti i cui bisogni spirituali non abbiano ricevuto adeguata considerazione hanno maggiori probabilità di avere livelli più bassi di soddisfazione e percezione della qualità delle cure (Astrow 2015). 

Le attività di assistenza spirituale sono organizzate in maniera diversa nei vari paesi d’Europa a seconda delle diverse legislazioni e delle eterogenee realtà sociali. In molti contesti ospedalieri sono i cappellani a svolgere l’attività di assistenza spirituale, essendo le figure specialistiche della cura spirituale dei pazienti e avendo conseguito una formazione specifica (Koenig 2012). Considerare l’assistenza ai bisogni spirituali come parte del processo di cura richiede in ogni caso una revisione delle pratiche assistenziali tradizionali e una formazione di tutti gli operatori al riconoscimento dei bisogni dei pazienti.

In ambito internazionale, in particolare in quello statunitense, sono in corso vari sforzi per lo sviluppo della ricerca e della formazione sull’assistenza spirituale che comprendono anche la formazione dei cappellani alla ricerca o l’incoraggiamento della loro partecipazione alle attività scientifiche (Flannelly 2014, Flannelly 2015). 

In Italia, dove la tutela della salute è un diritto costituzionale, è altrettanto avvertita l'esigenza di un'evoluzione dell'assistenza pastorale ospedaliera in un'ottica di rispondere alle esigenze di una collettività sempre più multireligiosa e multiculturale.

Il Gruppo di Studio sulla Spiritualità nella Cura riunisce studiosi di varie discipline e clinici interessati allo studio del ruolo della spiritualità nella cura dei pazienti e nell'organizzazione sanitaria. Il gruppo ha la finalità di promuovere la promozione della ricerca, della formazione e della cultura su questo tema, secondo i parametri metodologici oggi accreditati in ambito scientifico. 

In particolare le attività previste sono le seguenti:

-Creazione di una rete di collaborazione tra clinici, cappellani e ricercatori interessati al tema, con l'ausilio anche di siti internet e altre risorse informatiche.

-Redazione di un’agenda di ricerca. 

-Promozione di iniziative di formazione per operatori sanitari e cappellani.

-Promozione di attività di ricerca anche attraverso borse di studio.

-Disseminazione e sensibilizzazione di operatori e popolazione generale sul tema attraverso convegni e media.

 

BIBLIOGRAFIA

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